Tra i simboli degli ardito-popolari giunti fino a noi, oltre a quelli ereditati dall’arditismo di trincea: il teschio, da solo, ora attorniato dall’alloro, ora con un pugnale di baionetta tra i denti, c’è quello in cui un’ascia spezza nel mezzo un Fascio littorio. È un logo che giunge a noi grazie alle cronache di parte avversa, come tante altre informazioni e documenti: si pensi alle carte della polizia e degli altri organismi di repressione, durante il Ventennio così come in precedenza, che ci restituiscono azioni, scenari e personalità di cui magari si sarebbe altrimenti persa memoria, rendendo loro un involontario quanto indubbio tributo. Il simbolo lo troviamo, infatti, nella Storia della rivoluzione fascista del veterinario senese, fascista della prima ora, Giorgio Alberto Chiurco, uscita nel 1929: cinque volumi con finalità apologetiche, non proprio corretti dal punto di vista storiografico, che però, fatte le dovute tare, dànno un’esauriente descrizione dell’opposizione popolare all’avanzata fascista. Il Fascio spezzato è nella bandiera del Battaglione degli Arditi del popolo di Civitavecchia, sottratta come bottino di guerra dai fascisti grossetani nel 1922, che poi la affiggeranno nella propria sede, ed esposta nella Mostra per il X della Marcia su Roma, dopodiché risulta smarrita. Chiurco, che la pubblica in bianco e nero, parla di un “vessillo, veramente ricco, in velluto nero ricamato d’oro e di seta”. L’effige civitavecchiese finisce nelle copertine dei libri di argomento ardito-popolare, viene riproposta, rielaborata e riadattata per il presente.
Mancava, però, una monografia che affrontasse le circostanze in cui l’emblema vide l’elaborazione. La “ribelle irriducibile Civitavecchia” (l’espressione è del deputato social-massimalista Giuseppe Mingrino, tra i capi dell’arditismo popolare, che, a dispetto anche di questa definizione, finirà per essere un confidente della polizia fascista), è a pieno titolo da annoverare tra le città, assieme a, in ordine di tempo, Viterbo, Sarzana e Parma, che nel Biennio nero 1921-22 respinsero gli assalti “in grande stile” dei fascisti. Una resistenza popolare protrattasi fino all’ultimo, sconfitta infine sì ma capace di gettare quei semi che poi germoglieranno nella Lotta partigiana e nei decenni a venire. A colmare la lacuna ora c’è questo lavoro ad opera del civitavecchiese Enrico Ciancarini. E Ciancarini è uno bravo, continuatore d’una tradizione di studi territoriali, senza inciampare nel provincialismo o, peggio ancora, nel folclorismo che spesso minacciano l’erudizione localistica. Ne è testimonianza un suo precedente volume sulla massoneria della città marinara, All’Oriente di Civitavecchia (Sette città, 2010).
I fatti narrati partono dalla primavera del 1921, quando il movimento fascista inizia a farsi sentire nell’Italia centrale e a Civitavecchia, secondo polo industriale del Lazio, con una, ovvia, nutrita presenza dei portuali, ancora spesso imbevuti di un forte sentimento anarchico, trova l’ostilità della popolazione. Nella guerra di movimento in corso, qui come altrove, i fascisti, in questo caso provenienti da Roma e dalla Maremma toscana, riescono a trovare simpatie ed ospitalità nei quartieri bene del centro, nei caffè e negli alberghi di lusso, ove si acquartierano in vista degli assalti ai rioni periferici dove, invece, vivono i lavoratori del mare e di altre categorie, come ad esempio i cementisti, allora in piena agitazione sindacale. E il 19 maggio 1921 si hanno i primi incidenti di rilievo, proprio in vista delle celebrazioni per il XXI ann.rio della Cooperativa dei lavoratori del Porto, che i fascisti non vedono certo di buon occhio. Muoiono due lavoratori: Pietro Tartaglia e Umberto Urbani; da lì, anche per la città portuale, prende il via quella che è stata poi definita la “guerra civile dimenticata”. Il 17 luglio, quindi, la costituzione del locale Battaglione degli Arditi del popolo che raccoglierà, secondo alcune fonti, sulle seicento adesioni. Tra i fatti salienti, quello del 4 agosto del 1922, a ridosso quindi dei fatti di Parma, quando il popolo lavoratore si solleva cacciando i fascisti, coadiuvato da circa trecento operai jugoslavi che stavano costruendo la linea ferroviaria per Orte: una fratellanza che si replicherà, in Italia come nei Balcani, durante i moti resistenziali. Ma la Marcia su Roma è ormai imminente e a Civitavecchia, come nel resto del Paese, gli organismi istituzionali accompagnano al potere gli uomini di Mussolini; altro che Rivoluzione. Nel caso specifico, il Sottoprefetto D’Aniello, non avverso al fascismo ma intento a mantenere la sua imparzialità, di fatto si dà alla fuga e il gioco è fatto.
Il Fascio spezzato, con prefazione di Eros Francescangeli e introduzione dell’ex Sindaco Fabrizio Barbaranelli, si avvale delle fonti d’archivio classiche per la materia in oggetto, cioè gli archivi prefettizi, della bibliografia, ormai sempre più vasta, sugli ardito-popolari, e del materiale emerotecario dell’epoca, fortunatamente d’una certa consistenza a Civitavecchia. I periodici coevi di respiro nazionale citati sono, principalmente, “l’Ordine nuovo”, allora quotidiano, e, soprattutto, l’anarchico, ancora esistente, “Umanità nova”, che a Civitavecchia aveva un suo corrispondente-militante: Augusto Milo. Proprio le cronache di questi ci consegnano un ritratto efficace dell’ambiente in cui si sono prodotti i fatti ricostruiti. Il Movimento libertario aveva a Civitavecchia una delle sue più consistenti roccaforti: il primo Congresso Fai del Secondo dopoguerra sarà tenuto proprio a Civitavecchia. Le corrispondenze del Milo ci riferiscono di una realtà vivace, con i comizi e le conferenze di Errico Malatesta e Armando Borghi, animata in particolare dal Gruppo Pietro Gori, l’autore dell’Inno dei lavoratori del mare, a cui, il 13 ottobre 1946, sarà dedicato un busto in piazza del Mercato, nella vicinanze del luogo in cui, il 28 ottobre, il libro ha visto la sua prima presentazione. Nell’epigrafe si legge: “Gli anarchici e il popolo di Civitavecchia a Pietro Gori, che in terra nostra, al di là dei mari, forzando il destino dei secoli, ai fratelli ignoti insegnò le vie della libertà”.
Silvio Antonini